L’immagine come mobilitatore di coscienze: Amal e il conflitto dimenticato in Yemen

In tre anni ha fatto diecimila morti, ma poco se ne parla e ancora meno se ne sa.
Possiamo solo immaginare la negazione del concetto stesso di vita a partire dalla mancanza dell’essenziale. Acqua potabile, elettricità, cibo: ci accorgiamo della loro importanza solo nel momento in cui non li abbiamo più a portata di mano.In un paese martoriato dalla guerra, lo Yemen, 18,8 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria, 8 milioni di cure mediche di base e 7,3 i bambini che hanno bisogno di protezione. [1]

Le vittime sono soprattutto civili. Questa è la strategia di guerra. Da un lato la coalizione a guida saudita, che interviene per difendere il governo centrale. Poco importa se ciò implica il bombardamento massiccio delle zone nel nord del Paese dove hanno sede gli Houthi, i cosiddetti ribelli sciiti, l’altro fronte.
Questa guerra non si è fermata davanti a obiettivi civili come scuole e ospedali, addirittura ospedali per la neonatalità. Qui i civili diventano arma di guerra.

Un flusso di morte e sofferenza, in cui perdere è un verbo entrato nel vocabolario di tutti i giorni ormai da tre anni. Perdere i propri cari, la propria famiglia, perdere la propria umanità.
È aberrante che tutto questo stia accadendo sotto i nostri occhi e nessuno lo sappia. Il conflitto in Yemen è stato definito “la guerra dei dimenticati”.
Solo pochi mesi fa, ad agosto, un aereo saudita aveva sganciato degli ordigni su uno scuolabus nel nord dello Yemen, causando la morte di 43 bambini e ferendone 63. Ne abbiamo sicuramente sentito parlare e poi siamo ricaduti nel nostro sonno mediatico. È la normalità.

Fin quando è accaduto qualcosa di terribile, che ha risvegliato anche gli animi più assopiti.
La morte di Amal, una bambina 7 anni. Amal è morta di fame in un campo profughi. Era stata dimessa dall’ospedale perché il suo lettino serviva ad altri pazienti. Questa è la normalità in guerra. Abituarsi a perdere.

La piccola è diventata, suo malgrado, simbolo degli orrori del conflitto in Yemen. La sua foto, scattata qualche settimana fa dal fotografo del NY Times, Tyler Hicks, era stata pubblicata dal giornale per portare alla luce la tragedia umanitaria in corso in questo Paese. Così la gente ha iniziato a chiedersi, a informarsi, a indignarsi, a cercare di capire. Lo Yemen all’improvviso è finito in prima pagina.
Non è la prima volta che i media parlano di questo conflitto, ma non c’è niente di più stimolante della comunicazione visiva.
Tra tv, Ipad, telefonini e computer, sono numerosissime le ore che impegniamo nel rapporto con le immagini mediatiche. Si è parlato poco e male di questo conflitto, ma nulla è più evocativo di dare un volto alle cose. Ancora meglio se quel volto è quello di un bambino.

Basti pensare che in Yemen un bambino su venti soffre di malnutrizione acuta e rischia di morire per malattie normalmente curabili, come polmonite, morbillo o difterite. Molti altri hanno subito gravissime lesioni causate da bombe, attacchi aerei o mine: hanno perso braccia, gambe o la capacità di parlare o camminare. Ma è Amal che rimane stampata nella nostra mente. È la sua storia che abbiamo deciso di condividere sui social e che poi è stata rimossa perché “non in linea con gli standard della community”. Ma alle migliaia di proteste che si sono subito alzate, la società di Menlo Park ha prontamente risposto:

«Come previsto dagli standard della nostra community, non permettiamo la pubblicazione su Facebook di immagini di nudo di bambini, ma sappiamo che questa è un’immagine importante di portata mondiale», ha dichiarato una portavoce. «Per questo motivo stiamo ripristinando i post che abbiamo rimosso».[2]

Percepiamo, da un lato l’importanza dell’immagine come canale di sensibilizzazione, come mobilitatore di coscienze: è stato vedere quel corpicino tutto ossa che ci ha svegliati dal nostro torpore mediatico e ci ha indotti a reagire. Dall’altro la caducità di questo momento. Tra qualche giorno avremo dimenticato quegli occhi assenti e saremo pronti a una nuova tragedia?

La storia di Amal non ci è nuova, l’abbiamo già vista, in Siria, in un’altra guerra. Stavolta il nome del protagonista era Aylan. In questa storia, senza vincitori nè vinti, ci identifichiamo solo con i simboli.
Tutti ricordiamo le sue scarpine ancora allacciate e la sua maglietta rossa, il suo corpicino composto senza vita che giaceva sulle coste della Turchia meridionale.

Amal non è la prima e sicuramente non sarà l’ultima tragedia a cui assisteremo. Siamo cresciuti con la fotografia dell’allora bambina Kim Phuk, emblema della guerra in Vietnam e di ogni guerra.

L’immagine, in particolar modo la fotografia, è il più forte strumento di comunicazione a nostra disposizione. Oltre che informare, emozionando, insegna a non dimenticare, costituisce un “bagaglio emozionale” che si attiva ogni qual volta riguardiamo un’immagine.

È molto più facile, più coinvolgente e più veloce essere attratti da una fotografia, che ci da una rappresentazione immediata della realtà, che leggere o ascoltare delle parole.

Tuttavia, oggi i nostri occhi sono così traboccanti di immagini che è diventato facile rimuoverle dal nostro personal folder per fare posto a “materiale” sempre nuovo. La domanda è se in futuro riusciremo ancora ad emozionarci, a indignarci e soprattutto a reagire. La differenza è tangibile rispetto al passato, quando la tecnologia non ci consentiva l’accesso immediato a realtà così distanti, ma allo stesso tempo la potenza emotiva di Amal ci avrebbe segnato per sempre.

Riusciremo a preservare questa sensibilità o il continuo bombardamento mediatico ci porterà ad annichilirci, ad abituarci alla tragedia, al brutto e di conseguenza all’irrimediabile?

A cura di Lilla Milli 

 

[1] https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/nord-africa-e-medio-oriente/yemen

[2] https://www.valigiablu.it/yemen-carestia-guerra-arabia-saudita/

[I credits dell’immagine in evidenza sono di UNICEF]

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